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Martin Scorsese (ph. Nicolas Guerin)

text Emanuele Bigi
photo portrait Nicolas Guerin

3 Dicembre 2019

The Italian man

Martin Scorsese a Roma per presentare the irishman, ci racconta il suo amore per il cinema italiano

Martin Scorsese è particolarmente legato a Roma e al cinema italiano, una passione che lo ha accompagnato sin da giovanissimo quando, dopo la scuola, si intrufolava nelle sale del quartiere di Little Italy, a New York, per guardare i capolavori di Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini. Da quei pomeriggi è scaturito il suo amore per il cinema che lo ha spronato a diventare regista. Sono nati così capolavori come Toro Scatenato, Taxi Driver e Quei bravi ragazzi. Chissà se un po’ di sangue italiano (i nonni erano emigrati dalla Sicilia agli inizi del Novecento) ha dato il suo contribuito. Scorsese dagli States osservava con curiosità il nostro cinema ed era affascinato dalla “Hollywood sul Tevere” (così veniva chiamata Roma tra il 1950 e il ’65), a cui Fellini si ispirò per La dolce vita. Fu nel 2000 che il regista italo-americano decise di omaggiare Cinecittà girando quasi interamente il kolossal Gangs of New York con Leonardo DiCaprio. Con la capitale Scorsese ha sempre avuto un rapporto stretto: la sua prima volta a Roma fu nel 1970, anno in cui incontrò Rossellini. Più recentemente (nel 2006), insieme all’attore di Titanic, tenne a battesimo la prima edizione della Festa del Cinema con l’anteprima di The Departed, mentre nel 2018 ricevette da Paolo Taviani il premio alla carriera. Quest’anno, sempre alla Festa di Roma, ha presentato The Irishman (disponibile su Netflix) interpretato dall’amico Robert De Niro: un gangster movie che condivide una vena malinconica con C’era una volta in America di Sergio Leone. A riprova che il cinema italiano è insito in Scorsese.

Taxi DriverGangs of New York

Quando si è reso conto che la sua vita avrebbe battuto la strada del cinema?

Quando ho iniziato a vedere i film di Pasolini, Rossellini, Antonioni, De Sica e Fellini al cinema e in tv. In due o tre anni è cambiato tutto. La prima volta che vidi Accattone fu uno choc: mi identificavo con quei personaggi così veri. Di Fellini che dire? È sublime. L’avventura di Antonioni era un pezzo di arte moderna che ho dovuto imparare a decodificare, mentre Il gattopardo di Visconti intreccia melodramma e impegno politico. L’umorismo in Quei bravi ragazzi però l’ho veicolato da Divorzio all’italiana di Pietro Germi.

Con The Irishman ritorna al gangster movie e soprattutto a lavorare con De Niro dopo quasi 25 anni. Come è nato il progetto?

Dopo Casinò (1995) io e De Niro cercavamo una storia e un personaggio che valesse la pena raccontare. È stato Bob che mi fece leggere il libro di Charles Brandt L’irlandese. Ho ucciso Jimmi Hoffa, narrato da Frank Sheeran (De Niro ndr), un sicario della malavita. Qui, come nel film, si parla di criminalità organizzata e della corruzione negli Usa, dal dopoguerra agli anni Novanta, quando i boss si infiltravano nei sindacati, nei governi e nelle imprese. Bob era convinto ed emozionato da questa vicenda che scavava nel cuore dell’America, nel cuore del narratore.

The Irishman

È un film che va oltre il racconto della criminalità.

Racconta un percorso di vita, parla di amore, morte, rimorso e tradimento. Chi ha ammazzato chi? È una domanda che rimane sospesa, che passa in secondo piano di fronte alla solitudine di Frank e alla sua vita che scorre verso la morte.

Con The Irishman ci conduce nel passato a conoscere la vicenda di un sindacalista noto in America come Hoffa (Al Pacino), ma ci vuole ancorare anche al presente. 

Certamente: i conflitti morali non hanno tempo. Questa storia è narrata nel passato, ma le emozioni, i pensieri, le decisioni e l’immoralità del protagonista si confrontano con la coscienza dell’uomo di oggi. 

Qui i gangster non sono degli eroi, come capita di vedere al cinema.

Non volevo creare dei personaggi alla Scarface, ho accantonato la spettacolarizzazione della criminalità. Per noi lo spettacolo era solo interiore.

Come è stato ritrovare sul set l’amico De Niro?

Con Bob non ci siamo quasi parlati, ci siamo messi a nudo e fatti guidare dal personaggio di Frank.

The Irishman

Con Al Pacino invece era una prima volta.

Sì, ma lo avevo conosciuto negli anni ’70 grazie a Coppola. Negli anni ’80 dovevamo lavorare insieme a un progetto su Modigliani, ma non è andato termine. L’idea di chiamarlo è stata di Bob. Tra loro c’è un rapporto che dura da 40 anni e si sentiva sul set: quando recitavano accadeva qualcosa di speciale.

È stato complicato portare a termine un film di 3 ore e mezza che si avvicina più a un cinema dle passato che ai gangster movie di oggi?

Senza l’aiuto di Netflix non sarei mai riuscito a realizzarlo. Oggi le sale vogliono solo parchi di divertimento, film tratti dai fumetti o similia. Va bene girare qualsiasi tipo di prodotto, ma non va bene far credere ai giovani che quello sia il cinema. 




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