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Verdone

text Giovanni Bogani photo Dario Garofalo

21 Dicembre 2020

Mamma Roma

Carlo Verdone. La nostra intervista al grande attore romano in occasione dei suoi 70 anni

Quando vuole guardare Roma, quando la vuole abbracciare, Carlo Verdone sale su in terrazza. Da lì, lo sguardo si stende su tutta la città, su quella città che lui ama da sempre. Nella quale è nato, e della quale ha raccontato le molte anime nei suoi film. Lo scorso 17 novembre, Carlo Verdone - forse il regista italiano di maggior successo dal 1980 ad oggi - ha compiuto settant’anni.  Lo raggiungiamo al telefono, e ci facciamo raccontare la sua Roma, e i suoi settant’anni.

Carlo Verdone, attore, regista e scrittore e, soprattutto, simbolo di Roma.

Carlo, che cosa vede dalla sua terrazza?

Sono fortunato: sto in uno dei punti più alti di Roma, quasi in cima al Gianicolo. Dalla terrazza vedo la Basilica di San Giovanni, la sinagoga, il monumento a Vittorio Emanuele. E poi, verso sud, vedo il panorama fin verso i colli Albani, e addirittura - quando c’è la tramontana, e l’aria è limpida - anche uno spicchio di mare, verso Pratica di mare e Torvaianica. Quando me ne vado in terrazza posso abbracciare Roma.

La ama ancora, questa città?

Certo. È sempre meravigliosa, è sempre - per me - la città più bella del mondo. Purtroppo l’incuria e la cattiva manutenzione si vedono: la città si è trasformata, è come invasa da un cancro, e se ne vedono dappertutto le metastasi.

Gianicolo

Roma è anche la capitale della cristianità. Ci sono delle chiese di Roma che le sono personalmente care?

Sì. Mia madre era molto devota, molto cattolica. E io andavo insieme a lei, a Messa la domenica, e nel giro dei sepolcri al Venerdì Santo, nel giro dei presepi a Natale. Ho imparato ad amare tutte le chiese del quartiere: la Trinità dei Pellegrini, Santa Maria in Monticelli, Sant’Andrea della Valle, e una piccola chiesa in via dei Pettinari, San Salvatore in Onda. Oggi le chiese sono vuote: c’è solo qualche vecchio, che si raccomanda a Dio di morire nel modo migliore possibile.

Qual è la Roma più bella?

Era quella dei quartieri, ognuno con la sua personalità, con il suo carattere. Ma oggi quasi tutte le strade si sono omologate: c’è il bar degli aperitivi, la vineria un po’ chic, il ristorante alla moda. È scomparso tutto l’artigianato, sono scomparse tutte le botteghe: sono rimasti solo gli aperitivi.

Quale film della storia del cinema italiano racconta meglio Roma e il suo fascino?

Secondo me, Fellini ha capito Roma meglio di tutti. In un film come Lo sceicco bianco, il suo primo film, Federico Fellini crea delle inquadrature molto vere. Poi nella Dolce vita racconta via Veneto, l’euforia del cinema, l’incontro fra gli americani e gli italiani. Ma anche Vittorio De Sica racconta una Roma molto vera, in Ladri di biciclette e in Umberto D.. Riguardo alle periferie, nessuno le ha raccontate meglio di Pier Paolo Pasolini in Accattone e in Mamma Roma. Poi c’è la Roma metafisica, astratta, privata di auto, di traffico, di bancarelle che disegna Paolo Sorrentino ne La grande bellezza….

Nei film che lei ha diretto, Roma appare spesso. Dove è che sente di averla raccontata con più intensità?

In Un sacco bello, il mio primo film, che è un piccolo affresco su una Roma minuscola, di personaggi marginali. Mi manca moltissimo la “sora Lella”, la sorella di Aldo Fabrizi, che ho fatto recitare nei miei primi film, e che secondo me incarnava l’anima di Roma, il suo cuore, la sua ironia, il suo disincanto e la sua umanità.

Un sacco bello (1980)

C’è uno scrittore che ha capito Roma più di tutti?

Secondo me Montesquieu nel suo Viaggio in Italia. Charles Montesqieu visitò Roma nel 1728, ma quello che riuscì a capire è valido ancora oggi. Era attratto dalla forza erotica che sprigionava Roma, dai suoi quadri, dalle sue statue, dalla sua grazia morbida, ai limiti dell’oscenità, dalla sua ricchezza e dai suoi stracci. Quello che Montesqieu scrive si ritrova ancora oggi, nel carattere e nel modo di fare dei romani”.

Il 17 novembre ha compiuto settant’anni. Che bilancio fa, in questo momento, della sua vita e della sua carriera?

Mi sento estremamente fortunato. Se mi avessero detto, da ragazzo, che avrei fatto quello che poi ho fatto, ci avrei messo la firma: non una, ma 750mila volte. Ho avuto molto più di quello che avrei potuto sognare. 

Qual è, per lei, il momento chiave della sua carriera?

Il primo. Un calcio nel sedere che mi dette mia madre, davanti alla porta di casa mia. Era la sera del mio debutto a teatro, un piccolo teatro nel quale facevo un ‘one man show’ interpretando i miei personaggi. D’improvviso mi prese il panico, lo sgomento, il terrore di andare ad affrontare il pubblico. E stavo tornando a casa, stavo abbandonando tutto. Mia madre mi dette un calcio nel sedere e mi chiuse la porta di casa, dicendo “Vai! Se non vai, lo rimpiangerai per tutta la vita! Vai, fregnone!”. Quella sera c’erano solo dieci spettatori. Io pensavo di avere chiuso lì la mia avventura con lo spettacolo. Ma fra quei dieci spettatori c’era un critico teatrale, che scrisse molto bene di me. La gente, dall’indomani, cominciò ad affollare la platea, e da allora non mi sono più fermato. Quel calcio è stata la mia fortuna. 




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