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Antonello Buffardi de Curtis

text Antonello de Curtis e Gianluca Tenti
photo Massimo Sestini

17 Ottobre 2018

Totò a Roma

In un libro la storia di Totò e la sua relazione con la Città Eterna

Nonno Totò amava Roma, profondamente. La capitale, certo. La città eterna. Per lui era la vita professionale, rappresentava l’affermazione e il successo. Il sogno e la quotidianità. 

Due mondi paralleli. Perché c’era il Totò pubblico. Ma anche quello privato. E il Totò Metà-fisico, come abbiamo scritto nel volume pubblicato da Gruppo Editoriale e segnato dalle fotografie di Massimo Sestini, il fotoreporter che condivide col mitico Barillari il titolo di maestro assoluto del clic.

No, Gianluca non è nipote di Totò. Ne è figlio, come gli disse mia madre Liliana, perché in fin dei conti siamo tutti figli di Totò. A prescindere. Ma veniamo al suo rapporto con Roma.

Museo storico della comunicazione © Massimo Sestini

Quando nacqui, feci far pace tra nonno e mamma, come ho scritto in un libro (sempre con Gianluca Tenti) dal titolo I tre nonni che prima o poi pubblicheremo. Perché ci sono molti aspetti ignoti del Principe che meritano di essere conosciuti.

Ricordo mio nonno a casa, in via Parioli. Mio nonno con i divi del cinema, i registi, la piccola-grande corte dei miracoli che sgomitava per poter sedere al suo desco. Stentavo a credere a quella messe di nomi così importanti. Ricordo Alberto Sordi, Nino Manfredi, Walter Pidgeon, Steno, Monicelli. Donne, tante donne. Belle, bellissime. Tutte innamorate del nonno.

Non era però facile cenare in casa di Totò. Era un misto di rispetto e reverenza. Anche se lui faceva di tutto per limitare quegli appuntamenti perché in realtà amava la riservatezza. Il buio. E i film se li faceva proiettare a casa. A me, bambino, che cercavo di disturbare il meno possibile, un giorno disse: “Ricordati che sei un conte!” Allora non capii, oggi invece sì.

Perché scrivo queste cose? Perché credo che il pubblico, il lettore abbia diritto di conoscere anche queste parti meno scritte e raccontate. Episodi apparentemente insignificanti, ma in realtà densi di valori che forse aiutano a capire meglio chi era - e continua ad essere - Totò.

Giancarlo Governi, author of 'Pianeta Totò' at Rai show © Massimo Sestini

Il primo episodio che ripeto sempre ai veri amici è relativo a quando accompagnavo il nonno a Cinecittà. Il fidato autista Carlo Cafiero ci lasciava all’ingresso del teatro di posa e il Principe, che negli ultimi tempi faticava con la vista, elargiva sempre una lauta mancia a chiunque si dimostrasse meritevole di rispetto. Quel giorno tirò fuori una banconota da diecimila lire, stirata e profumata come faceva sempre. E la rifilò a una persona che definire sovrappeso è un eufemismo. Quest’uomo non fece discorsi. Aprì a Totò la porta dell’ascensore e se ne corse via. Chissà dove, pensai. Quando arrivammo al secondo piano, la porta si aprì come per magia. Totò allungò un’altra diecimila e, non senza sorpresa, vidi di nuovo lo stesso uomo, in un lago di sudore, ansimante che tendeva la mano con reverenza. Questo per dire che la generosità del nonno era leggendaria.

Mentre scriviamo queste righe, Gianluca mi sprona a ricordare altri aneddoti. E certo il più ghiotto è quello relativo al mio primo bel voto rimediato a scuola dove, come tutti i ragazzi sani di questo mondo, proprio non volevo andare.

Era il periodo delle critiche selvagge a Totò. I giornali non gli perdonavano il successo popolare. Lui ne soffriva, ma alla fine si sentiva ripagato dall’affetto delle persone. Per farla breve in seconda media a un compito d’italiano ci chiesero di descrivere la nostra famiglia. Capirai… A un certo punto scrissi che mi vergognavo di essere nipote di Totò. Non so perché lo feci. Il professore entusiasta mi premiò con un bel 7. Quando raccontai a casa di quel voto, nessuno ci credeva. E quando mamma chiamò il padre, ignara del merito acquisito a scapito del nostro sangue, trovò un Totò estremamente soddisfatto. Che mi invitò a casa, aprì il proprio guardaroba e mi fece scegliere una cravatta, la mia prima cravatta. 

L'artista Dicò nella sua Galleria d'arte © Massimo Sestini

Sono i primi ricordi. Ai quali il Tenti, sempre lui, aggiunge la scarsa attitudine manifestata da Totò con il piccolo schermo. Che lui rispettava ma non amava. Non amava esserne protagonista, tanto da centellinare le presenze, riservando un trattamento particolare alla sola Mina della quale era profondo ammiratore.

Più che scrivo, più che emergono memorie. A tal punto da voler ripensare ai miei mille ricordi di Roma. Alle partite a carte con nonna Diana che mi ha iniziato al gioco delle carte, quelle che faceva miracolosamente apparire tra un libro di testo e l’altro. Alle lezioni di vita che un altro nonno, Carlo Ludovico Bragaglia (che di Totò fu regista), mi impartiva dall’alto della sua sterminata cultura. Al conflitto costante con mio padre Gianni Buffardi che l’Italia presto riscoprirà e che di Totò sarà ultimo produttore. Dopo la rivalutazione di un Grande Attore, operata a cura di Pier Paolo Pasolini con Uccellacci e uccellini. Dopo che Totò portava l’ombrello per ripararsi dal sole mentre passeggiava con Anna Magnani nelle pause sul set di Risate di gioia, sul lungotevere di una Roma di struggente decadente bellezza.   




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