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cover-Dagospia

text Matteo Parigi Bini
photo Massimo Sestini

8 Ottobre 2020

A 20 anni dalla nascita di Dagospia, la nostra straripante intervista a Roberto D’Agostino

Ribelle per natura, sfrontato e irriverente il vero volto di Roberto D’Agostino

Le etichette proprio non gli stanno addosso. Gli scivolano via sulla pelle. Sarà che di spazio libero, tra i tanti tatuaggi, ne è rimasto poco. Ribelle per natura, sfrontato e irriverente, Roberto D’Agostino ne ha fatta di strada da ex bambino balbuziente del quartiere romano di San Lorenzo. Ha ‘cambiato d’abito’ molte volte negli anni, da impiegato di banca, a dj, giornalista di musica e costume, personaggio televisivo, attore di se stesso (in Faccione), regista (in Mutande pazze) e conduttore televisivo (in Dago in the Sky, in onda dal 2016). Un vero trasformista, ma sempre fedele a se stesso.

E in questo 2020, in cui di anni ne ha compiuti 72, festeggia i 20 anni della sua creatura più viscerale, Dagospia, portale unico nel suo genere, tanto da diventare oggetto di una lectio magistralis a Oxford, trattato dal New York Times e dallo Spiegel. Una finestra aperta sulla cronaca e sulle vite di vip di tutti i tipi (politica, spettacolo, società… la stessa ‘Italia bene’ che spesso frequenta la sua casa a Roma), e i loro retroscena. 

Roberto D’Agostino, giornalista e opinionista, ha fondato nel 2000 il portale Dagospia, una finestra aperta sulla cronaca e sulle vite di vip (ph. Claudio Porcarelli)

Come nasce Roberto D’Agostino?

Prima ancora che a Roma, sono nato nel quartiere di San Lorenzo. In via dei Volsci, una via diventata poi tumultuosa, negli anni ’70, quando ospitava qualche scalmanato con le molotov. In un quartiere che era ancora più isolato del Vaticano, circoscritto da una parte dal cimitero di Verano e dall’altra dallo scalo ferroviario, collegato al resto della città da questa sorta di tunnel che è Santa Bibiana. Un luogo extra territoriale che è sempre vissuto con le sue regole. 

E com’è stato crescere in questo quartiere? 

Quando ero ragazzino San Lorenzo non era ancora stato ricostruito dopo il bombardamento del ’43. Io e i miei amici giocavo spesso nelle macerie. C’era una particolare chimica che non si trovava da nessuna parte. 

Roberto D’Agostino nell’eclettica redazione di Dagospia (ph. Massimo Sestini)

Poi anche in Italia arrivò la filosofia beatnik.

Sono stato balbuziente fino ai 15 anni, avevo quindi difficoltà a comunicare con gli altri - nonché col gentil sesso, motivo per cui chiesi a mia madre di portarmi da un logopedista - e mi buttai sulla lettura. Ho letto di tutto, ma in particolare la letteratura americana. Io e il mio compagno di allora, Paolo Zaccagnini, diventato anche lui giornalista, eravamo affascinati dai libri che raccontavano  di questo mondo lontano, quello della gioventù di San Francisco. La distanza più grande non era quella geografica: mentre in Italia quelli erano gli anni delle ideologie, comunista o quant’altro, le opere di Kerouac, Ginsberg, John Giorno parlavano di un’idea molto zen della vita. Le energie che abbiamo a disposizione non sono molte, le puoi usare in maniera distruttiva, attaccando il palazzo del potere, oppure le puoi usare in maniera creativa. Era la filosofia beatnik, quella che poi ha portato al rinascimento digitale della Silicon Valley. Un’idea completamente diversa da quelle nostra: è inutile stare qui a fare i Don Chisciotte, creiamo noi il nostro mondo, la nostra comunità, piuttosto che convincere altri a vivere come noi. Do your thing.

Erano gli anni che portarono al ’68, alle contestazioni…

Si, ma ne sono rimasto piuttosto fuori. Dopo la letteratura beatnik, la mia vita ricevette il colpo fatale nel ’67, quando fu pubblicato il famoso libro di Guy Debord, La società dello spettacolo, che ha anticipato tutto quello che è avvenuto finora. Non c’era più il popolo, ognuno era una star. La società dello spettacolo avrebbe sepolto qualsiasi ideologia. Ero disincantato rispetto a quello che stavano cercando queste persone. E anzi, il ’68 fu l’anno in cui entrai a lavorare in banca.

La redazione di Dagospia (ph Massimo Sestini)

E poi, cosa successe?

Nel ’70, fallito come chitarrista, inizia a scrivere di musica (tanto si sa, tutti i critici sono dei falliti…). Collaborai con riviste come Ciao 2001 e Rockstar e cominciai a fare il dj nelle radio libere e nelle serate che avevamo chiamato It’s Only Rock’n’Roll. Inizia a scrivere di musica per L’Europeo. Poi, alla fine degli anni ’70 arrivò quello tsunami che era il punk e cominciarono a nascere tutte le varie tribù del rock, contraddistinte dal look. Così, quando lasciai la banca e andai a Milano, cominciai a scrivere di musica ma dal punto di vista del costume.

Con la televisione come è cominciata?

Nel ’76 feci il dj in un programma diventato poi di culto, Odeon. Lì conobbi Brando Giordani, Paolo Giaccio… Per tre anni ho fatto l’autore di Sotto le stelle, uno show di Rai 1. Feci un provino per presentare Mister Fantasy, ma fui bocciato per il mio perfido accento romanesco. Così continuai a fare l’autore. Poi arrivò Quelli della notte, con Renzo Arbore.

Ha mai avuto un maestro?

Tanti. In quegli anni sicuramente Arbore e Boncompagni. Boncompagni era un genio sottovalutato. Ricordo che quando facevamo le prove per Domenica in, 4 ore erano per la luce e 10 minuti per la scaletta. Perché la televisione è luce. È stato lui a inventare l’aureola, per differenziare il conduttore dagli ospiti. Era l’immagine, fulcro della comunicazione televisiva. Arbore poi, con Quelli della notte, aveva rivoluzionato tutto: non c’era più un personaggio dietro l’altro, era tutto orizzontale, in modo da passare rapidamente da un all’altro, magari anche in caso d’intoppo. Questo dava ritmo e lui era il regista.

La redazione di Dagospia (ph Massimo Sestini)

Venti anni fa, quando internet era ancora agli albori, crea Dagospia. Come le venne l’idea?

Non c’era Google, né Facebook, nessun social, Instagram arrivò dopo 9 anni. Sarà stata anche la crisi di mezza età - allora avevo 50 anni - ma sono stato preso da un senso di autarchia, e quando ebbi qualche problema con l’Espresso, decisi di aprire Dagospia. E da 20 anni sputo sangue ogni giorno.

Un sua visione di Roma.

Roma è il più grande abbattitore di megalomani. Abbiamo il privilegio di vivere in una città che è storia e quelli che arrivano da fuori vengono tutti massacrati. Ricordo una volta in cui Roberto Benigni, al massimo del successo, passò davanti al Bar della Pace. Dei ragazzi, infervorati, lo chiamavano. Alla fine, bontà sua, decide di girarsi e fare un saluto. Neanche si fossero messi d’accordo, partì una pernacchia che rimbombò per qualche minuto. Siamo fatti così… nati per essere stronzi.




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